Se l'uomo è ciò che mangia, il cuoco è ciò che cucina?

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Il pane azzimo, pane della fuga e della frugalità. E una ricetta


Pane azzimo e pane lievitato sono due pani diversi non solo per la tecnica di preparazione ma perché rappresentano due approcci diversi alla necessità di nutrirsi. 
Del resto nessun alimento come il pane si impone nella cultura occidentale: sta ad indicare dalla notte dei tempi il sostentamento quotidiano. Del resto il grano non si mangia a chicchi appena colti.
Lo stesso termine “compagni”, che sta ad indicare solidali ed uguali, deriva da “cum pani”.

Ma se il pane lievitato ha bisogno di una vera e propria liturgia per la preparazione, dove il tempo diventa un ingrediente fondamentale, al pane azzimo ci si affida quando si va di fretta o, più semplicemente, quando basta un morbido impasto di farina, anche senza glutine, e acqua che la magia del fuoco trasforma in sfoglie che si possono impilare, arrotolare, farcire, essiccare, rinvenire.

Mangiare alla giudia

Il pane azzimo è sempre stato considerato “il mangiare alla giudea” per eccellenza. Ad esserne ghiotti non erano esclusivamente gli ebrei che lo confezionavano in un’infinità di modi e di ricette, ma anche dai cristiani che, non solo in tempo di Pasqua, affollavano i forni del ghetto per far provvista delle tonde pizze non lievitate. C’era un alone di eresia che circondava il cibo-simbolo della biblica uscita degli ebrei dall’Egitto, che aiutava a conferire al fragrante gusto delle azzime quel fascino del proibito, così da renderle ambiguamente appetibili ad un largo pubblico durante tutto l’anno. Ne’ servivano a frenarne il consumo le censure degli inquisitori ed i ripetuti divieti delle autorità ecclesiastiche, che proibivano agli ebrei di vender ai cristiani ed a questi ultimi di cibarsene liberamente.

Le regole della kasherut

Le regole alimentari ebraiche sono stabilite dalla Torah, i cinque libri biblici (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio), che riportano le norme che si applicano anche a tutti gli aspetti della vita e trasformano l’atto del cibarsi da un atto di semplice sopravvivenza ad un rito sacro, un momento della quotidianità che aiuta a percorrere la via della perfezione.
La base della codificazione delle regole alimentari stabilite dalla Torah si trova nel concetto di kasherut, che significa “adeguatezza” e che indica la possibilità o meno di un cibo ad essere consumato da un ebreo osservante.

Pesach e chametz

Un lungo capitolo quindi meriterebbero le regole alle limitazioni per i cibi della Pasqua e per il pane azzimo che gode di una particolare attenzione in quanto, per tutta la durata della festa, è divieto assoluto assumere cibo lievitato.
La casa deve essere accuratamente pulita per togliere ogni sia pur minima traccia di cibi lievitati: tutta la famiglia verrà coinvolta nella ricerca di ogni singola briciola, che dovrà poi essere bruciata. Da qui alle pulizie di primavera il passo è davvero breve. Ma non si tratta solo di eccesso di virtù domestica: il lievito (chametz) è simbolicamente il “lievito negativo” ovvero la rabbia, l’orgoglio o il narcisismo che ognuno ha in sè.
In ogni casa poi non dovrebbero mancare dei servizi di stoviglie da usarsi solo per la Pasqua e, in mancanza, sarà necessario immergere i recipienti di metallo in un contenitore colmo d’acqua bollente resa tale grazie all’immersione di un ferro rovente. Così da essere davvero certi di aver eliminato ogni briciola di pane lievitato.

Una curiosa particolarità: solo gli ebrei italiani e gli ebrei yemeniti hanno l’abitudine di usare in casa, durante la Pesach, farina di grano. Sarà comunque una farina kasherizzata che verrà usata secondo tutte le regole prescritte. Gli impasti, preparati solo con farina ed uova (senza acqua, quindi, in quanto è fondamentale per la lievitazione), verranno cotti immediatamente affinché non si inneschi il seppur minimo processo di fermentazione. 

Una ricetta che una volta giunta nel Ghetto di Venezia si è arricchita di uvetta e pinoli è il Pasticcio di azzime, un piatto dagli ingredienti semplici che diventa una proposta armoniosa e soprattutto completa da un punto di vista nutrizionale: qui trovate la ricetta e qualche curiosità della cucina ebraica veneziana.

Il lavash armeno

Infine un pane azzimo che amo molto: il lavash, una sorta di sfoglia morbida, composta da farina, acqua, olio e sale. Viene cotto nel tonir, un forno cilindrico, scavato nel pavimento delle abitazioni o delle panetterie e vede una meravigliosa complicità femminile nella preparazione: una donna stende la sfoglia sottile con un matterello, una seconda l’appoggia sopra il cuscino con il quale l’applicherà sui lati del forno ed una terza la raccoglierà con un ferro e lo impilerà ordinatamente. Si conserva così per mesi. Al momento del servizio verrà spruzzato d’acqua e farcito con formaggio di capra e con le erbe fresche che non mancano mai nei pranzi armeni: menta, prezzemolo e coriandolo. Viene consumato anche in Iran, in Turchia, in Georgia e in Azerbaigian ed è diffuso in tutto il Medio Oriente. Nel 2014 l’UNESCO l’ha inserito nella lista dei beni patrimonio dell’Umanità proprio per la sua caratteristica preparazione.

Verrebbe da dire quindi che non di solo pane vive l’uomo ma di tutta quella cultura gastronomica che i più semplificano nelle “radici” e che gli storici invece sostengono essere “identità culturale”.


Bibliografia
A. Toaff, Mangiare alla Giudia – La cucina ebraica in Italia dal Rinascimento all’età moderna
G. Ascoli Vitali-Norsa, La cucina nella tradizione ebraica
G. Rorato, Origini e storia della cucina veneziana
M. Ovadia, Il conto dell’ultima cena – Il cibo, lo spirito e l’umorismo ebraico
V. Manoukian, Cucina armena
S. Orfalian, La cucina d'Armenia. Viaggio nella cultura culinaria di un popolo

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