Ambasciatrice Ilaria Talimani per il Calendario del Cibo Italiano – Italian Food Calendar per la settimana del Carnevale.
Qualche anno fa Umberto Eco si era posto una domanda non da poco: “Che senso ha celebrare una ricorrenza in un mondo in cui il Carnevale viene proposto per trecento e sessantacinque giorni l’anno? Non ci resta che sperare nella Quaresima.”
Nel passato infatti il Carnevale era un’istituzione sociale indispensabile: semel in anno licet insanire. Semel, appunto, mica semper.
Costretti fra Stato e Chiesa, fra vicini di casa impiccioni e delatori e Torquemada che non aspettava altro bisognava trovare una valvola di sfogo, visto che ancora non esisteva la possibilità di commentare le ricette nei forum. E quindi? E quindi si inventò il Carnevale, ovvero si inserirono tra l'Epifania e le Ceneri le feste in onore di Saturno, momenti orgiastici officiati dai romani durante lo stesso periodo dell'anno, nelle quali sono confluiti gli antichi riti agrari purificatori e propiziatori, tipo l’aratura rituale o la semina che avvenivano nella piazza del villaggio e che segnavano il principio del nuovo ciclo stagionale.
E c’era il “libera tutti” in quanto venivano meno le norme sociali: Goethe diceva che il Carnevale non era una festa che si offriva al popolo, ma una festa che il popolo offriva a se stesso, dove il mondo si rovesciava, si sbeffeggiavano le autorità, il servo diventava padrone e il padrone servo.
A Venezia il Carnevale si estendeva dal giorno di santo Stefano all'inizio della Quaresima e comportava tanto manifestazioni patrocinate e regolamentate dal governo quanto festeggiamenti di spontanea iniziativa privata. Il momento in cui più sensibile era la commistione tra "alto" e "basso", tra rituale pubblico e divertimento popolare, era la giornata del giovedì grasso o "zioba dela cazza", così chiamato in riferimento alla sua principale attrattiva, la "caccia al toro" in piazza San Marco.
Dopo la macellazione dei maiali e del toro, la festa del giovedì grasso in Piazza proseguiva di norma all'insegna di una festosità incruenta, con carri allegorici, rappresentazioni teatrali di vario genere, spettacoli pirotecnici; in analoghe manifestazioni, su scala più ridotta, ci si poteva imbattere un po' dovunque in città.
In un tempo come quello del Carnevale, sacro al libero scatenarsi degli istinti e delle energie naturali, la violenza - sempre latente, sotto la superficiale vernice di raffinatezza, anche negli strati più elevati della società veneziana del Rinascimento non poteva certo appagarsi di sfoghi pianificati e istituzionalizzati. I giovani, i signori del carnevale, tendevano a dimenticare ogni convenzione sociale ed a trasformarsi in un vero pericolo pubblico. Non si aveva rispetto nemmeno per il massimo rappresentante dell'autorità statale, se nel corso di un festino offerto in Palazzo dal doge Gritti alcuni giovani - questi giovani del giorno d'oggi, chiosava il Sanudo, "molto discoli" - avevano rivolto alle donne presenti "stranie et vergognose parole, et fato quasi cazer in aqua una neza dil Serenissimo.” E l’uso della maschera, come la Bautta che consentiva comunque di mangiare tra un frizzo ed un lazzo, faceva venir meno davvero tutti i freni inibitori, diventando tacita approvazione per reazioni violenti che sfociavano anche nell’omicidio.
Ma provate a pensare ad un luogo diverso dall’Italia come patria del Carnevale più bello del mondo, con buona pace del Brasile.
Nel veronese l’ultimo venerdì di Carnevale del 1531 la città era angustiata da una grave carestia: il popolo, esasperato, assale i forni. Per placare la rivolta ad alcuni cittadini facoltosi venne un’idea strepitosa: distribuiamo gnocchi a tutti! La rivolta si placò e da allora a Carnevale si elegge il Papà dello Gnocco e in piazza vengono distribuiti gnocchi gratuitamente a tutti.
Duecentocinquantotto anni dopo, una tal Antonietta, Regina di Francia, provò lo stesso stratagemma ed alla folla affamata ed inferocita propose brioche. E sappiamo tutti come è andata a finire.
Il cibo infatti, durante il Carnevale, diventa anch’esso un modo per beffeggiare limiti e costrizioni: la Chiesa infatti aveva imposto di astenersi dalla carne, il cui consumo favoriva la sessualità, e tra digiuni e astinenze per 150-160 giorni all’anno la dieta era davvero monotona fatta di pane scuro, vegetali, cipolla, aglio, carne di porco, lardo e la coincidenza temporale con le celebrazioni di Sant'Antonio e con il rito contadino della macellazione del maiale, lo sposavano al trionfo delle ghiottonerie suine d'ogni genere. Ed ai fritti, naturalmente, che lungo tutta la penisola trasformano uova, farina, zucchero e quanto di goloso conserva la dispensa in “bocconi per signori e per puareti”, come le frittele, o fritole, che a Venezia erano una vera e propria istituzione, servite durante tutto l’anno, da “maestri” fritoleri che, dopo una lunga diatriba, ottennero il permesso di offrire anche zuppe e minestre.
La ricetta di oggi (nel blog di frittelle e galani, “frittelle fatte di vento” ne trovate diverse) è un omaggio a quella parte della mia famiglia che invece di specchiarsi sulla laguna aveva a disposizione il golfo più bello del mondo.
GRAFFE NAPOLETANE
Dosi per 4 persone (circa 20 graffe)
Difficoltà: media
Preparazione: 30’ più la lievitazione (2h + 1h)
Cottura: 4’
Ingredienti
350 g di farina 00
200 g di patate bio
70 g di burro chiarificato
70 g di zucchero semolato profumato alla vaniglia, più quello per la decorazione
2 uova bio
7 g di lievito di birra secco
1 limone bio
sale iodato
olio di semi di arachide per la frittura
Preparazione
Portare a bollore le patate con la buccia e cuocerle per 30’. Con la pentola a pressione il tempo si ridurrà di 20’. Sbucciarle e passarle allo schiacciapatate.
In una ciotola mettere la farina a fontana, unire le patate, lo zucchero, il lievito, il burro a tocchetti, le uova, la scorza grattugiata del limone e il pizzico di sale: impastare fino ad ottenere un composto omogeneo oppure con la planetaria con la frusta a gancio.
Formate una palla e lasciarla lievitare coperta in una ciotola fino al raddoppio: ci vorranno un paio di ore a 28°.
Sgonfiare l’impasto, dividerlo in tante porzioni da max 40 g, farne una pallina e successivamente una strisciolina (tipo gnocchi) di 2 cm di spessore della lunghezza di 10-12 cm, unire le due estremità e adagiare la graffa sopra una teglia coperta da carta forno, facendo attenzione a non posizionarle troppo vicine.
Lasciar lievitare le ciambelline coperte in un luogo caldo fino al raddoppio; ci vorrà un’altra ora.
Friggete le graffe in abbondante olio di arachide alla temperatura di 180. Giratele una volta per farle cuocere da entrambe i lati e fino a raggiungere una bella doratura.
Scolarle con l’aiuto di un ragno e farle asciugare su carta assorbente. Quindi passatele nello zucchero semolato e servire.
Alla fine mi tocca farle sono troppe golose ...
RispondiEliminaLia
Nooooo, ancora tentazioni.... Adesso mi disconnetto, sennò diventerò una barca solo guardando questi dolcetti!!! Ma mi piacciono da impazzire!!!!
RispondiEliminaQuest'anno purtroppo sono a dieta ferrea e non ho potuto mangiarne... le tue sappi le ho mangiate più volte con gli occhi ;)
RispondiEliminaFavolose
Una goduria di bontà sia che graffe e ancora meglio le zeppole di San Giuseppe.
RispondiEliminaE come lo racconti tu, è il Carnevale più bello di sempre!!!
RispondiEliminaHo capito che sto diventando una cuoca cantastorie o, meglio, cucinastorie :)
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