E' iniziato qualche giorno fa, il 15 ottobre scorso, un nuovo percorso di storia dell’alimentazione, una sorta di viaggio curioso che inizierà dal lontano Paleolitico a oggi per scoprire, magari, che veramente oggi siamo quello che abbiamo mangiato e che non sempre, come diceva Feurbach, l’uomo è ciò che mangia ma spesso l’uomo mangia ciò che è, come ha affermato il Prof. Gasparini, autorevole compagno di viaggio.
Diverse saranno le tappe del viaggio, una volta al mese fino al 20 maggio 2016, contraddistinte da una lettera dell'alfabeto che verrà analizzata sia da un punto di vista dell'antropologia gastronomica che da quello culinario: tutto questo in diretta, durante la trasmissione "Geo e Geo", Rai 3, giovedì, dalle 17.15. Il prossimo appuntamento è previsto per il 12 novembre mentre qui troverete il link del podcast della prima trasmissione.
Abbiamo iniziato con la "C di Crudo e di Coltello, ma anche di conservare" e il prossimo appuntamento vedrà come protagonista la "F di Fuoco".
Ecco quanto è stato detto lo scorso 15 ottobre e di seguito una delle tre ricette che ho cucinato davanti alle telecamere che contenevano sia la C di crudo che di Coltello: grande spazio quindi alle tartare e alla marinatura.
Buona lettura e buon appetito.
Nei confronti del Paleolitico (termine introdotto da J. Lubbock nel 1865) e che comprende un periodo vasto che va grosso modo dai 2,5 milioni di anni fa fino al 10.000 a.C., si è consolidato nel tempo quello che gli archeologi hanno definito “il pregiudizio neolitico”, ossia le denigrazione da parte dei neolitici del sistema alimentare paleolitico, della serie mangiavano molto male e peggio.
In realtà potremmo quasi parlare di “opulenza materiale” anche se ossessionati dalla continua ricerca di cibo e fino alla “scoperta” del fuoco.
In realtà cacciatori e raccoglitori lavoravano meno di noi e la ricerca di cibo, invece che una continua fatica, era saltuaria e il tempo libero e il sonno a disposizione erano abbondanti.
Un uomo della caccia e della raccolta manteneva quattro-cinque persone , con gruppi di persone in continua mobilità.
Una dieta fatta di carne, spesso di carogne di animali, residuo dei pasti dia latri grandi carnivori, accompagnata e completata da bacche, frutta e quanto di commestibile il regno vegetale, foresta e savana, potevano offrire.
Questo il primo dato certo.
Quanto alla carne veniva mangiata cruda, fino all’avvento del fuoco, determinando anche tutta la fisiologia e la morfologia sia dell’apparato mandibolare – si pensi all’atto di strappare la carne- che del sistema digestivo, nonché l’abbondante copertura di peluria del corpo per ripararsi dal freddo. Tempi di masticazione, di digestione erano certamente più lunghi rispetto ad oggi, e spesso la carne non era esente da parassiti e quanto altro.
Mangiare crudo è tronato di moda…con tutti i dubbi e le perplessità del caso.
Ma la nostra storia passa attraverso un lungo processo di acculturazione che ha nel cibo - nel modo di procurarlo, trasformarlo e mangiarlo- dei passaggi che via via ci distinguono dagli animali.
Uno dei momenti di acculturazione, non solo materiale, sta nella creazione di alcuni utensili: si pensi alla selce, alla pietra scheggiata e al suo molteplice uso.
Smembrare un animale, scorticarlo, porzionarlo, richiedeva l’uso di selci affilate e immanicate. Da questo immanicamento trae origine il coltello.
Potremmo proprio dire che in principio era il coltello: avere in mano una lama significava poter sfilettare, sminuzzare, sbucciare, cambiare in mille modi la forma e le dimensioni di ciò che la natura metteva a disposizione, ma soprattutto selezionare e organizzare la materia in funzione del suo consumo concreto.
Ma la faccenda è più sottile, culturalmente. Gli animali e i vegetali non sono più pensati come unità integrali ma partitive: un pesce poteva essere spellato, diliscato, sfilettato e suddiviso. È questa la rivoluzione di pensiero che sta a monte dell’adozione di una lama che sta a mone e a valle di tutto il processo: l’animale viene ri-pensato. L’uomo, nel momento in cui si circonda di strumenti non altera solo le sue capacità materiali ma anche il modo in cui percepisce il mondo. La tecnologia è un vero e proprio discorso e la cucina permette di pensare il mondo in funzione del senso in cui la materia la pensiamo come cibo.
Per farla breve ogni tradizione culinaria ha il suo “coltello da cuoco” che cambiano in funzione e in relazione alle preparazioni di volta in volta proprie di quella tradizione.
Un esempio per tutti. La cucina giapponese ha due tipi di coltelli: lo yanagi, appuntito, con manico sottile e corto, da impugnare ben vicino al polso in modo che la mano possa seguire la lama come se questa fosse un’estensione del braccio. Il movimento viene impartito dalla spalla e il gioco del polso è ridotto al minimo il tutto per potere affettare sottilmente materie morbide come il pesce crudo. L’altro, il santoku, che significa tre usi per affettare, ridurre a dadini e triturare. Una lama ampia, squadrata, con una curvatura del filo ridotta, quasi nulla.
E ad ogni coltello, come il classico coltello da “cuoco” europeo, corrisponde una metallurgia, ma anche suoni diversi : dal tac-tac, proprio dell’azione percussiva del santoku al zzac-zzac-zzac del coltello europeo che lavora combinando l’affondamento con il movimento orizzontale.
Potremmo continuare ma il legame profondo tra utensile, uomo e materia prima da trattare è culturale, antropologicamente profonda. Si pensi al bastoncino con cui si affronta il cibo con un rifiuto culturale di tagliare, lacerare, mutilare.
E non a caso, tra tutti i mediatori culturali che nei secoli abbiamo posto tra noi e il cibo, il primo sarà il coltello: a seguire cucchiaio e per ultima la forchetta.
Poi nei secoli i coltelli si piegheranno, in Europa soprattutto, ad usi specifici e particolari, seguendo mode e
tendenze,- si veda la tavola di Bartolomeo Scappi- lussi nella scelta dei materiali, argento ma anche ceramica, manici desueti, design… e oggi, nelle case, non può mancare un set di coltelli e un professionista serio, chef , viaggia sempre con il suo set personale, a volte personalizzato. Ma il tutto partì qualche milione di anni fa…con una selce, tagliente quanto basta.
E fu cucina!
Tartare di ananas con cornflakes ed uvetta: il dessert che non ti aspetti
Ingredienti (per 4 persone)
1 ananas
4 arance bio
2 banane
4 cucchiai di uvetta sultanina
4 cucchiai di cornflakes
1 lime
2 cucchiai di miele di acacia o millefiori
2 cucchiai di vino passito.
Procedimento
In una ciotola far rinvenire l’uvetta con un po’ di vino passito.
Pelare a vivo 2 arance e ottenere succo dalle rimanenti. Scolare l’uvetta ed unirla al succo ed agli spicchi tagliati a vivo. Lasciar riposare per qualche minuto in frigo.
Mondare e tagliare l’ananas in dadolata di 1x1, sbucciare le banane, togliere con la lama del coltello la parte superficiale e tagliarle ugualmente di dadolata: unire la frutta alla marinata di arancia ed uvetta.
Dividere la frutta in 4 coppette, versare sopra ½ cucchiaio di miele, i corn flakes e decorare con le zeste di lime.
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