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#laprugnaincompresa nella letteratura e il Borsch di una notte di mezza estate


Eccomi con una nuova storia che ha come protagonista #laprugnaincompresa!
La scorsa settimana vi ho raccontato quanto la prugna fosse amatissima dai Romani, dai Crociati che la fecero conoscere ai Francesi ed infine di come la California divenne la sua patria elettiva.
Eppure nel Regimen Sanitatis Salernitanumo Regola Sanitaria Salernitana, un trattato in versi latini scritti all’interno della Scuola Medica Salernitana nel XII-XIII secolo, la prugna veniva definita un alimento “freddo” e quindi da sconsigliarne il consumo, essendo poco adatta a risvegliare passioni amorose. Per contro, la sapienza antica legata alle erbe officinali, riteneva che la particolare forma delle susine conferisse loro anche doti afrodisiache, tanto che ai giovani sposi veniva regalato un albero così da assicurare un matrimonio felice e fortunato.

Tante le storie, che si perdono nella notte dei tempi, attorno ad un frutto così prezioso, e non stupisce quindi che sia il cinema che la letteratura l’abbiano reso protagonista di film, poesie, fumetti e romanzi.

Il racconto più insolito è sicuramente “Pollo alla prugne”, graphic novel di Marjane Satrapi (Ed. Sperling & Kupfer, 2005), fumettista iraniana divenuta famosa con “Persepolis”, fumetto tradotto poi per il cinema, candidato al premio Oscar nel 2008 e premiato con il Gran premio della giuria al Festival di Cannes. Scrittrice sensibilissima e osteggiata dal regime di Teheran, vive e lavora a Parigi.
Ambientato nell’Iran degli anni ’50 racconta la storia struggente di un musicista iraniano che si lascia morire dopo che la moglie, in uno scatto d’ira, distrugge il suo preziosissimo strumento musicale. Lo struggimento per l’oggetto in realtà è sia il dolore per una storia d’amore mai realizzata, che per il rimpianto del passato e la necessità di trovare un equilibrio precario, in un futuro fumoso e colmo di incognite.
Il fumetto si legge tutto d’un fiato, in un rimando continuo al passato ed a quello che avrebbe potuto essere nella vita del musicista, mentre il pollo alle prugne, il suo piatto preferito perché associato alla bellezza ed alla dolcezza della donna amata, diventa improvvisamente privo di sapore, come la sua vita oramai al termine.

  

Herta Müller, scrittrice tedesca di origini romene, insignita del premio Nobel per la letteratura nel 2009, nel suo criptico “Il Paese delle prugne verdi” (Ed. Keller, 2008) utilizza la metafora mortale della prugna non matura, con un nocciolo ancora tenero e che potrebbe essere ingoiato senza volerlo, per narrare la terribile condizione in cui i giovani romeni erano costretti sotto il regime di Ceauşescu. Un romanzo allucinato, che narra il suicidio di una generazione privata di sogni e speranze, di connivenze obbligate con i servizi segreti, della lotta quotidiana alla sopravvivenza.

Decisamente più leggero ed ironico è il tono del libro “La ballata delle prugne secche” (Castelvecchi Editore, 2006) in cui la scrittrice e blogger Valeria di Napoli, conosciuta con lo pseudonimo di Pulsatilla, si cimenta in un romanzo autobiografico di crescita, ambientato in una Foggia spesso ostaggio delle tradizioni e del passato. Un’adolescente in crisi alle prese con i genitori divorziati, con amici scossi dalle stesse insicurezze ed in dieta perenne, tanto da eleggere a cibo del cuore proprio le prugne secche!

Infine un’opera erotica, per chiudere in bellezza questa breve rassegna dedicata alla prugna nella letteratura, che fu pubblicata in Cina nel XVI sec., provocando grandissimo scalpore. Si tratta del romanzo Chin P’ing Mei (La prugna nel vaso d’oro) considerato uno dei grandi classici della letteratura cinese, primo nello descrivere la sessualità in maniera graficamente esplicita. Racconta le vicissitudine amorose del mercante Hsi-Men Ch’in e del suo numeroso seguito di mogli e concubine, dalla ricchezza fino alla rovinosa caduta. 



La ricetta di questa settimana è ispirata alla gastronomia dell’Est, così ricca di sapere e di sapore.
Si tratta di un Borsch o Boršč, una zuppa invernale di origine ucraina, che prevede l’utilizzo della barbabietola. Ho pensato di trasformarla in un piatto di salute e bellezza utilizzando la prugna come elemento dolce e vellutante e la rapa per il tono di terra. Gli ingredienti vengono cotti brevemente in un vino rosso giovane ma potreste optare per una versione ancora più breve e detox, utilizzando un mixer potente o una centrifuga, quasi fosse un gazpacho.
Il Borsch si serve delicatamente speziato e con panna acida ed è buono sia freddo che tiepido.

R - Come un Borsch: vellutata estiva con prugne e rape        

Portata: primo piatto, vegan
Dosi: per 4-6 persone
Difficoltà: semplice
Preparazione: 20’
Cottura 15’

Ingredienti
200 g di prugne SunSweet
200 g di pomodorini datterini
200 g di rape precotte di Chioggia
100 g di noci pesche
100 g di susine rosse o gialle
1-2 limoni, il succo (a gusto)
1 pezzettino di radice di zenzero (a gusto)
qualche bacca di pepe di Timut
1 stecca di cannella
180 ml di vino rosso giovane, tipo Lambrusco
180 ml di acqua
sale di maldon, un pizzico

Per il servizio: panna acida (anche di soia) e qualche fogliolina di menta o timo limonato

Procedimento
Lavate, mondate e cubettate frutta e verdure (attenzione che le rape colorano le mani!).
Trasferite il tutto in una casseruola con il vino, l’acqua, il succo di limone, le spezie raccolte in una garzina pulita (così da recuperarle più facilmente in un secondo momento) e la radice di zenzero.
Portate ad ebollizione, abbassate il fuoco e cucinate coperto per circa 15’, mescolando di tanto in tanto.
Regolate il gusto con un pizzico di sale.
Togliete dal fuoco, eliminate le spezie, frullate con un mixer ad immersione e successivamente passate il composto al colino, se preferite una texure più vellutata. Raffreddate, o abbattete in positivo, e servite in ciotole individuali decorando con foglie di menta e panna acida.

Bibliografia:
Il libro degli ingredienti, AAVV, Slow Food Editore, 1997
Pollo alla prugne, Marjane Satrapi, Ed. Sperling & Kupfer, 2005
Il paese delle prugne verdi, Herta Müller, Ed. Keller, 2008
La ballata delle prugne secche, Pulsatilla, Castelvecchi Editore, 2006 


Brodetto dell'Adriatico o Broeto de pesse alla ciosòta per Mtchallenge #55


Pina si arrampica sul tavolo della cucina, dove è già posizionata A-gata, in silenziosa attesa da una buona mezz’ora e, facendosi largo tra libri e appunti, tenta una conversazione. “E così hai vinto la sfida del miele lanciata da Eleonora e Michael.” 
Già - rispondo io, senza alzare lo sguardo perso tra le carte - e il filo conduttore rispetto alla prima vittoria sembra essere il pesce. Con gli gnocchi in nero di Araba c’era la bottarga e, appunto, il nero di seppia, ricordi?
Si, e ricordo che lanciasti il guanto con i “Risi e Bisi”, il piatto del Doge, di San Marco e del Bocolo. Si potrebbe continuare a parlare di cucina erotica veneta, che ne dici? domanda Pina facendo l’occhiolino ad A-gata, gatta morta pacata dall’età e da Tzunami-Meggie.
“Cucina erotica? - esclamo io - “Ma ti pare che un piatto di riso e piselli è erotico?!” chiudo alzando finalmente la testa.
“Non fare l’ingenua con me che non attacca! Non sei tu quella che continua a parlare di passione in ogni singolo atto legato alla cucina, dal palpare le pere al mercato a ravanare avidamente le intimità del pollo per farci cose che neanche Tinto Brass, a citare la scena del Postino suona sempre due volte dove sul tavolo invece di acqua e farina si impasta dell’altro per finire con Joe Cocker colonna sonora di un picnic notturno in cui il miele viene spalmato sul corpo che diventa vassoio di panna, fragole e cetriolini?”
“Cetriolini?”
“Vabbè, era per rimanere in tema. Io lancerei alla Van Pelt la sfida con la cucina erotica, dai! Sai che ricette! E che foto!” esclama Pina in un crescendo di entusiasmo.
“Miao.” sentenzia A-gata, muovendo appena la coda, come a voler avvallare la proposta della sua amica pennuta.
“Non possiamo Pina, siamo in Quaresima. Digiuno e astinenza, ricordi? Quindi niente carne ed insaccati. Neppure in senso figurato. E neppure dolci, tolti quelli che solitamente vengono preparati per rompere il digiuno con la scusa di festeggiare San Giuseppe.” ragiono io mentre cerco di individuare un tema che possa essere ben collocato in un calendario gastronomico e liturgico.
“Peccato, stavo già pensando alla ricetta della poenta e osei.” ridacchia Pina sotto le piume mentre A-gata risponde con fusa così intense da poter essere misurate in decibel.
Ma cos’avete entrambe?! - mentre mi alzo e preparo l’ennesimo caffè - “Sentite la primavera? Facciamo le serie, per cortesia. Visto il periodo non ci resta che il pesce. Giusto! Il pesce! E siccome siamo in Quaresima e Barisoni ha annunciato a Focus Economia il secondo mese consecutivo di deflazione sarà un piatto di pesce povero. Di quello che mangiavano solo i poveri tanto ai ricchi il concilio di Trento aveva regalato lo stoccafisso prima e storione e caviale poi. Faremo il Broeto Chiosoto!” decido, mentre già parte l’embolo sulle possibili varianti, gastronomiche, storiche e geografiche.
“Un brodino. Cioè, tu sei quella che se ogni mese non metti una diavoleria nella ricetta non sei contenta ed ora ti presenti con un brodino? Ma perché non lanci la sfida con i Sofficini, già che ci sei. E non venirmi a dire che in Quaresima non si frigge a parte le zeppole per rompere il digiuno.” borbotta Pina mentre scende dal tavolo con fare offeso e A-gata mi rivolge il suo lato b.
“Dai ragazze, non fate così. La cucina erotica la faremo un’altra volta. Vi assicuro che il broeto alla ciosòta sarà più divertente! Pensate all’anarchia assoluta che si cela dietro ad un piatto che si prepara con il pescato che c’è, diverso di stagione in stagione, dalla laguna alla costa al mare aperto, con pomodoro o senza a seconda se preparato prima o dopo la scoperta del nuovo mondo, con polenta o senza in quanto il mais prima del ‘500 non sapevano neppure dove stesse di casa. Pensate alle contaminazioni! I pescatori di Chioggia furono i primi, attorno al 1200, a dar vita alla pesca industriale: la laguna stava già mostrando i segni di un eccessivo sfruttamento della popolazione ittica e, modificando la chiglia delle imbarcazioni, affrontarono il mare aperto, per andare “di là”, ovvero verso la Croazia e verso il Delta del Po, a contaminare i propri pescati, ed i propri broeti, da Marano a Grado, da Caorle a Muggia. Un piatto anarchico, si! Un piatto che diventa cultura proprio grazie alle infinite contaminazioni e differenze, così che quello che solitamente divide in cucina, lo snocciolare di sterili regole declamate con forza a sottolineare le proprie insicurezze, diventerà un momento di unione. E di trasformazione. Che ne dite?” chiudo al colmo dell’entusiasmo.
“Ecco - replica Pina rassegnata - ci mancava solo il pippone equosolidale. Del resto, cosa ci si poteva aspettare da una che vince con una ricetta intitolata Vietato Vietare?”




Il Brodetto, o broéto o boreto, di pesce è un piatto dalla cottura veloce, che nasce come una zuppa “di bordo”, un piatto unico povero, spesso il risultato di un modo di recuperare il pesce poco apprezzato dalla clientela e al quale non rimaneva che la casseruola in barca o la griglia.
Come ogni intingolo appena brodoso che si rispetti veniva accompagnato da fette di polenta fredda portata da casa, prima che questa divenisse piatto nazionale della pianura padana. Le prime testimonianze della coltivazione del mais in terra veneta, infatti, risalgono al 1549, in un terreno a Vigonza (poco lontano da casa mia), per diffondersi poi in tutto il Nord Italia, tra il 1600, Udine ed il 1620, Ferrara. Prima della polenta si utilizzavano dei rimasugli di pane di segale e, nel caso di Chioggia, i Bussolai o Bussolà, dei grissini spessi chiusi a ciambella o anello che venivano cotti in forno così da rimanere croccanti per lungo periodo e non essere intaccati da muffe e tarli. Venivano sbriciolati nei brodi per dare appunto più consistenza e la cui origine risale sicuramente al Pan Biscotto, il pane che veniva caricato nelle stive delle galere per nutrire i marinai addetti ai remi, la cui produzione e commercializzazione era severamente regolata dalla Serenissima. Esistono testimonianze che vedono l’impasto del pan biscotto preparato con farina e acqua di mare, a sottolineare ulteriormente che si trattava di cibo per i “marinanti”.
Il pane dalla crosta spessa e dall’interno bianco ed alveolato, che oramai accompagna tutte le zuppe, non poteva certamente accompagnare i primi broeti: l’utilizzo della farina “fior”, bianca ed impalpabile, era riservato alle classi più abbienti e il popolino di certo non arrivava a farlo diventare “raffermo”, tanto prezioso era.
Medesima attenzione, circa gli ingredienti del Broeto, deve essere riservata all’uso del pomodoro, che nel corso del tempo si è trasformato in un paio di cucchiai di concentrato, meno aspro dell’ortaggio in purezza: anch’esso si è palesato nelle mense europee solo dopo il ‘500, subendo la medesima diffidenza che fu dedicata alla melanzana prima ed alla patata poi. Dobbiamo ricordarci che i pomodori che sbarcarono dalle navi di ritorno dalle scoperte delle Americhe erano verdi ed aspri, il cui utilizzo necessitava di una giusta attenzione, per non rovinare irreparabilmente il piatto.
Nella preparazione del piatto non dovevano mancare alcuni condimenti base, come aglio e cipolla, l’olio, anche se in alcune ricette si suggerisce l’uso del burro, e naturalmente il vino e/o l’aceto di vino, entrambi bianchi.



La pesca in tutto il bacino del Mediterraneo avveniva soprattutto lungo le coste e nelle acque lagunari, ricche anche di frutti di mare e si utilizzavano delle reti fisse che intercettavano il pesce durante le migrazioni periodiche tra il mare, i corsi d’acqua e le lagune. Il pesce era un cibo destinato alle classi povere ad integrazione della loro monotona e povera dieta, guardato con diffidenza dalle classi più abbienti, come indicato da Giovanni de’ Rosselli nell’Epulario (Venezia, 1518) che suggerisce la seguente ricetta: “fallo lessare in metà vino o aceto e metà acqua: e per suo sapore vuole un poco di agliata fortissima; convincendosi che ogni pesce vilissimo è più conveniente a zappatori che a uomini dabbene.” Per cui i broeti di pesce destinati alle mense più ricche erano caratterizzati dall’ampio uso di spezie e con specie pregiate, il cui consumo era limitato ai periodi di magro e quaresima, limitazione che lo caratterizza come cibo penitenziale.

Il Brodetto stava quindi ad indicare un intingolo brodoso ricavato dall’utilizzo di uno o più tipi di pesce, non indicati specificatamente, se non in alcuni testi della Cinquecento che indicavano l’utilizzo del pesce “bestiale” o “beffano” ovvero quel pesce catturato in alto mare. 
Fu durante la fine del Cinquecento, grazie alla campagna di educazione al cibo promossa dal Vaticano con tanto di pubblicazione di trattati di dietetica, che il pesce smette di essere un ingrediente ad uso e consumo del popolino. Inoltre i progressi tecnologici nell’arte pescatoria e l’accresciuta domanda del prodotto ittico risvegliano l’interesse dei cuochi verso le pietanze consumate dai pescatori e per primo, Bartolomeo Scappi, durante un viaggio da Venezia a Ravenna, cita proprio i brodetti chioggiotti come le testimonianze più antiche di questo piatto, prendendo ispirazione per il suo più elegante “Rombo in potaggio”.

Le contaminazioni avvenute nell’alto Adriatico, grazie alla marineria chioggiotta che si era spinta fino in Istria, proseguite poi nel Tirreno e in tutto il bacino del Mediterraneo, sono state determinanti per la differenziazione di questo piatto tanto che le specie utilizzate per questa preparazione sono circa una trentina a partire da tre, cinque, sette fino a diciotto specie diverse in una singola ricetta. Singolare il caso di una ricetta anconetana in cui le specie indicate sono 13, a ricordo dell'ultima cena.
Le qualità più usate, a parte il go o gozzo, specie principe nei ricettari antichi e moderni, erano scorfano, seppia, tracina, pesce lucerna, rana pescatrice, triglia, palombo, nasello, totano, mazzancolla, spigola, razza, capone, cernia, dentice. Non mancano, naturalmente, preparazioni a base di anguilla. A parte il pesce azzurro, che veniva utilizzato in esclusiva, come suggerisce sempre lo Scappi, nell’appendice Libro de’ convalescenti, dove suggerisce un “potaggio di sarde fresche senza spina”.


Spesso i broeti venivano aromatizzati con erbe secche e aromi presenti in cambusa e il successivo trasferimento dal mare aperto alla terra ferma ha reso possibili ulteriori differenziazioni: pensate al broeto preparato in barca da un pescatore rispetto a quello preparato dalla propria moglie la quale utilizzava ortaggi freschi barattati con piccole quantità di pesce, riuscendo a renderlo ogni volta delizioso, come raccontato nelle quattro quartine di Biagio Marin:

El Boreto
El boreto de Liseta
xe ‘rivao comò un gran don,
i mancheva un gran de sal
ma, del resto,
gera bon.
Do moreli de bisato
i ha cundio un datragan:
l’agio drento ben disfa
e l’aseo de bona man.
Ma no devo lassà in parte
quel bon rombo de nadal
messo in meso cò gran arte,
un bocon de gardenal.
Xe vignuo col pignatin
bon odor de casa mia
e la vampa nel camin
che portava l’alegria

“La ricetta raccolta dal pescatore del luogo durante le soste negli scali si è prestata, strada facendo, ad accomodamenti e manipolazioni che, tenendo ingiusto conto l’apporto dei prodotti locali e le sperimentazioni personali - interpretazioni dettate dall’etnia e da altri fattori -, finiscono per trasferire al piatto, a seconda del porto in cui approda, sfumature e profumi diversi che ne fanno ogni volta un cibo nuovo, originale che riesce poi a mantenere e veicolare una propria identità nonostante le inevitabili mutazioni, più o mento percettibili prodottesi nel tempo.”

Come avrete capito non si tratta di una ricetta o di una tecnica codificata severamente ma una proposta resa meravigliosamente viva dalle contaminazioni storiche, geografiche, economiche e culturali che hanno saputo rendere unico il nostro sapere gastronomico. Una cucina delle differenze, quindi, che non divide ma unisce, come dovrebbe essere ogni volta che ci sediamo, anche virtualmente, a tavola.
Allora vi chiedo, alla luce del tema e della ricetta che ha reso possibile questa sfida, avreste voglia di raccontarmi quando, nella vostra vita, un momento legato al cibo ha fatto la "differenza"? 

Buona sfida a tutti!



Eccoci quindi alla ricetta “storica”, che non ho trovato in nessuno dei moltissimi libri di cucina che ho consultato e che appartiene a Giuseppe Zennaro, pescatore per più di 60 anni e morto, vent’anni fa all’età di 90 anni. Un pescatore cha aveva cominciato ancora quando c'erano i pescherecci a vela, i bragozzi e le tartane, imbarcazioni tipiche della flotta chioggiotta. La ricetta originale l’ho modificata sfilttando il pesce e preparando con le teste e le lische un profumato fumetto di pesce. Se desiderate utilizzare seppie e calamari questi andranno inseriti per primi nella sequenza di cottura dei pesci.
Qui invece le regole della sfida definite dalla redazione dell'Mtchallenge.




Broeto de pesse (alla ciosòta)

Ingredienti per 4 persone
1 kg di pesce misto fra racina (varagno), scorfano (scarpena), san pietro, ghiozzi (gò) , gallinella (luserna) e rana pescatrice, oltre ad altri pesci che, in ragione della stagione e del censo, possono essere tutti quelli che si trovano
500 g di molluschi che possono essere a seconda di stagione, cicale o canocie, gamberi, mazzancolle, scampi, anche seppie, calamaretti e/o moscardini
500 g fra cozze (peoci) e vongole (bibarasse)
4 capesante
1 spicchio di aglio
1 cipolla bianca di Chioggia
1 costa di sedano
1 carota
½ bicchiere abbondante di aceto di vino bianco
Olio evo
Pepe di cubebe macinato al momento
Polenta bianca abbrustolita o Bussolai 

Preparazione
Pulire le cozze, eliminare le barbe e lasciarle in acqua fredda e sale con le vongole.
Eviscerare e pulire tutto il pesce, sfilettarlo e mettere da parte le carcasse.
Disporre i filetti in un vassoio, coprire con pellicola e mettere in frigo.
Tritare finemente la cipolla e l’aglio.
In una casseruola scaldare un paio di cucchiai di olio evo, tostare, premendo con un mestolo, le carcasse fino a farle dorare, versare 3 litri di acqua freddissima e qualche cubetto di ghiaccio, portare a bollore, unire la costa di sedano e la carota, abbassare il fuoco, schiumare e far ridurre il liquido della metà. Filtrare, mettere da parte e tenere al caldo.
In un tegame basso e largo far dorare dolcemente il trito di cipolla e aglio, unire gli scampi, le mazzancolle e le cicale, qualche mestolo di fumetto, l'aceto, farlo evaporare e far cuocere a fuoco basso e coperto per 15’, unire le cozze e le vongole e lasciarle cuocere fino a quando non si apriranno ed infine unire i filetti tagliati a tocchetti e cuocere per altri 5’, senza mai mescolare.

Regolare di sale e servire con i bussolai e una generosa macinata di pepe.

Bibliografia
AAVV, Brodetti, broéti e boreti - Accademia Italiana della Cucina, delegazioni e centri studi del Friuli Venezia Giulia e del Veneto
Ricette veneziane di Bartolomeo Scappi
Ranieri da Mosto, Il Veneto in cucina
Mariù Salvatori de Zuliani, A tola co i nostri veci
AAVV, Cucina e tradizione nel Veneto
Giampiero Rorato, Storie di grandi piatti
AAVV, L’azzurro del Veneto nel piatto
Pino Agostini, Alvise Zorzi, A tavola con i dogi

Vongole veraci in vellutata di piselli e qualche aneddoto sul mercato del pesce di Chioggia


L'estate appena trascorsa ha portato degli ortaggi fantastici da godere appieno anche in giornate uggiose (e per fortuna che c'è il congelatore) e una polemica legata alle dimensioni delle vongole che si possono pescare, polemica che ogni tanto si ripresenta sia a livello nazionale che Ue.
Non ho voglia di alimentare polemiche sterili (chi abbaia alla luna non ha mai una soluzione ma offre solo no declinati in ogni modo) e tanto meno di indicare le indubbie e risapute qualità organolettiche di un prodotto che ognuno di noi conosce e consuma.
Quello che vorrei raccontarvi oggi, così da strapparvi un sorriso mentre preparerete questa ricetta, sono degli aneddoti legati proprio al mercato del pesce di Chioggia, una piccola Venezia in miniatura, popolata da personaggi, più che da cittadini.

Città di pescatori per eccellenza, a differenza di Venezia che era città di mercati e di mercanti, Chioggia, anche se mai veramente nominata, fu il palcoscenico naturale de "Le Baruffe Chiozzotte", commedia scritta da Carlo Goldoni, ispirata alle liti che quotidianamente coinvolgevano i "baruffanti" e le autorità. 
Grande importanza aveva per la Serenissima la salute pubblica e quotidianamente il mercato del pesce era visitato dai severi Vigili Sanitari, per sventare truffe e frodi e, proprio per questo motivo, era vietatissimo bagnare il pesce esposto sui banchi della pescheria, così da ravvivarne "l'occhio". Ma i divieti sono fatti per essere aggirati e quindi, per poter distogliere l'attenzione dei vigili sui comportamenti illeciti bisognava creare un po' di confusione, come ben seppe raccontare Goldoni e quindi, tra una Lucietta che accetta la corte di Toffolo e una Orsetta che si diletta in pettegolezzi con Beppo, si scatena un'intera comunità che, tra spintoni e secchiate d'acqua finirà comunque nell'intento di bagnare il pesce per continuarne la vendita fino a sera.


Un'altra caratteristica del mercato dei banchi della pescheria di Chioggia sono le coperture ottenute grazie all'uso di bellissimi teli dal rosso inteso, quasi bordeaux, l'unico rosso veneziano. Qualche tempo fa anche a Chioggia, forse sulla falsa riga di quanto accadde a Venezia quando, sull'insindacabile desiderio della coppia Pitt-Jolie e per motivi cinematografici, le vetuste coperture dei banchi di Rialto vvennero sostituite con candidi teli, fu proposto di rinnovare non solo le coperture ma anche il colore.
Apriti cielo! Se Goldoni fosse stato ancora vivo avrebbe avuto a disposizione materiale per almeno tre commedie, tante furono le polemiche che scossero tutta la città! E infatti non se ne fece nulla. Tradizioni che surclassano le innovazioni? Beh, non propriamente: in realtà le frequenze ultraviolette raggiunte dai raggi solari che colpivano i teli rossi e che rimbalzano sui banchi sapevano donare all'occhio del pesce una vivacità unica. Tanto che le avvedute massaie ed i cuochi esperti portano il pesce fuori dalle coperture per verificarne la freschezza, un po' come si fa con le stoffe nel negozio di tessuti.

Ma, come concludeva sempre il giudice interpellato a derimere le baruffe, si tratta di "putelezi" ovvero cose di poco conto che nulla tolgono al fascino ed alla bellezza uniche di girare con un carrellino ben fornito di ghiaccioli e caricarlo di pesce freschissimo, dopo essersi goduti anche le battute, le chiacchiere ed i complimenti di pescivendoli e "marinanti". 


Nella ricetta di oggi le vongole veraci, o "caparossoi", mitili carnosi e gustosi dalle vezzose antennine, sanno essere molto saporite e l’acqua di cottura ben filtrata saprà dare la giusta sapidità alla crema di piselli, senza dover aggiungere sale e grassi in eccesso. Una ceramica colorata renderà questo antipasto ancora più piacevole, magari accompagnato da un Soave doc.

Vongole veraci in vellutata saporita di piselli

Preparazione: 20’
Cottura: 20’
Difficoltà: minima
portata: antipasto

Ingredienti per quattro persone
500 d di vongole veraci
450 g di piselli freschi sgusciati o surgelati  (peso al netto del bacello)
200 ml di vino bianco secco 
2 spicchi d’aglio dop 
1 cucchiaio di prezzemolo tritato 
100 ml di brodo vegetale
Olio evo
Sale iodato e pepe nero

Procedimento
Mettere a spurgare le vongole in acqua fredda salata per almeno un'ora 
In una casseruola, o nella base di una tajine, rosolare gli spicchi d’aglio in camicia con un paio di cucchiai di olio evo, far aprire le vongole, eliminare quelle chiuse, sfumare con il vino bianco e continuare la cottura a fuoco vivace per altri 5’. Filtrare il liquido di cottura e tenere al caldo le vongole.
Mondare i piselli, eliminare il baccello e lessarli per 8’ in acqua bollente salata.
Scolari, frullarli emulsionando con il liquido di cottura delle vongole e il brodo vegetale caldo.
Servire dividendo la vellutata in fondine o mini tajine, distribuire le vongole e terminare con un po’ di prezzemolo fresco ed una macinata di pepe nero.


Cassopipa (non è una parolaccia) ovvero la Taieddhra chioggiotta (e questa si che è una parolaccia)


Galeotto fu l'Mtchallenge e chi decise (Cristian) che la sfida di maggio avrebbe avuto come tema la Taieddhra!

La prima volta che incontrai la Puglia fu nel 1991: affrontammo il viaggio di notte, con un'auto senza aria condizionata ed una bimba di un anno e e mezzo che fu stoica nel suo rimanere tranquillamente legata al seggiolino dell'auto. La destinazione si chiamava Victor Village, a Marina di Ugento, punta estrema della nostra penisola. Mentre attendavamo il trenino, che avrebbe caricato i bagagli per portarci all'appartamento, Enrica si sciolse dalla cintura, scese dall'auto e corse a perdifiato verso la piscina. Cominciammo a rincorrerla, con il cuore in gola, senza raggiungerla. Si fermò sul bordo della stessa, d'improvviso, si girò per vedere se qualcuno della famiglia stesse arrivando, si tolse il succhiotto e sorrise. Nel frattempo avevo perso 10 anni di vita ma fortunatamente il pericolo era stato scampato!


Posto bellissimo, mare stupendo, clima fantastico....peccato per due cose: un'animazione un po' troppo vivace (sono le 9!! Sono le 10!! Ginnastica!!!Gioco in spiaggia!! Tempo di aperitivo!!...e non erano ancora le 12...) e il fatto che c'era la sabbia. Si, quella polvere più o meno impalpabile che si infilava tra i ditini dei piedini di Enrica che ad ogni passo te li porgeva perché venissero puliti.
Addio spiaggia...e quindi non rimaneva che dedicarsi ad altro. Nello specifico decisi di prendere il brevetto da sub: in due settimane c'era tutto il tempo per affrontare teoria quotidiana, al mattino, ed immersioni pomeridiane. Prima a 8 metri, poi a 15, poi a 22, poi notturne e senza bussola, poi profonde a 40 metri. 


Il mare di notte, senza luna, è quanto di più bello possa esistere: gli abissi illuminati dalle torce assumono incredibili tonalità azzurre, rosa, viola, smeraldo. Il silenzio è rotto solo dal battito del cuore e dal rumore dell'erogatore mentre le bollicine che ti avvolgono ad ogni respiro, e che salgono verso l'alto, ti fanno capire qual'è il dritto di questo fantastico mondo. Quando ci si immerge non si può parlare ma esistono tutta una serie di segnali convenzionali che ti permettono di comunicare con il compagno con il quale obbligatoriamente si scende: mai immergersi da soli!
Durante un'immersione notturna, passando in mezzo a delle grotte, mi incagliai con la bombola: sfilai il gav (un giubbetto che ti consente di mantenere un assetto stabile) e sganciai l'octopussy incagliato (ovvero le 4 fruste collegate alla bombola, al gav, al manometro e all'erogatore di riserva). Poi rimisi il gav ma durante tutto questo cava-e-metti un po' di acqua mi entrò nella maschera. Ovviamente c'è un trucchetto per svuotarla ma evidentemente non fui così brava perché prima di riuscirci la maschera si allagò completamente. Normalmente non è una cosa così grave, se non fosse per il fatto che mi mancano 10 diottrie per occhio e che l'acqua, uscendo dalla maschera, si era portata via le lenti a contatto. 


Realizzai due cose in pochi secondi: che stavo finendo l'ossigeno e che non sapevo dov'ero. Cioè, lo sapevo: ero in mezzo ad un buio profondo 32 metri. 
Cercai di darmi un contegno e di respirare meno velocemente possibile e cercando di seguire l'andamento delle bollicine: non mi accorsi che stavo salendo troppo velocemente. Mi sentii tirar giù con veemenza per una pinna, afferrare prima per i pesi e poi alle spalle mentre gli occhi inferociti dell'istruttore chiedevano spiegazioni; cercai di fargli capire che non ci vedevo nulla e gli mostrai il manometro: segnava che avevo praticamente finito la bombola. Mi diede il suo erogatore di riserva e mi portò nuovamente giù e da lì iniziammo a risalire fermandoci qualche minuto a profondità ber definite: 28, 20, 12, 8 e poi la superficie, per evitare la formazione di emboli che una risalita troppo veloce avrebbe sicuramente comportato.
Mi beccai una bella ramanzina ma si complimentò per il sangue freddo; convenne comunque anche lui che tra i segnali convenzionali sarebbe stato utile inserire: "ho perso le lenti, non ci vedo, scusi dov'è l'uscita". Ma per fortuna il secondo pericolo era stato scampato.


Tornammo in Puglia anni dopo, sempre a Marina di Ugento ma in camper, nel campeggio adiacente al Victor Villagge: Enrica aveva imparato a sopportare la sabbia sui piedi, l'animazione era un ricordo lontano e le immersioni erano più tranquille. 
In quegli anni nel Salento vide la luce un evento nuovissimo "La Notte della Taranta": si svolgeva adiacente all'ex convento barocco degli agostiniani che fungeva da sfondo per il palco, si arrivava a piedi lasciando il camper vicino alla piazza ed i visitatori si contavano in poche migliaia. Come tutte le feste folcloristiche che si rispettino c'erano stand e banchetti che offrivano di tutto fra i quali uno, ricco di dolcetti, crackers e lecca-lecca che avevano in comune un unico ingrediente: la mariuana. Potere capire come mi sono sentita mentre Edoardo iniziò uno dei suoi rari, ma rumorosi, capricci - perché voleva il lecca-lecca - mentre si stava avvicinando una coppia di Carabinieri in uniforme? Fortunatamente anche quel pericolo fu scampato :)


Vi lascio con la mia interpretazione della Taieddhra, influenzata dalla vicina Chioggia e da una ricetta che preparavano i pescatori chioggiotti dentro ai "bragossi", le barche tipiche, al rientro della nottata lavorativa: il Cassopipa. La tradizione vuole si aggiungano i bigoli, grossi spaghetti prodotti con un torchio in rame detto appunto bigolaro; il Cassopipa è così chiamato perché tutti gli ingredienti devono “pipare” - ovvero cuocere a fuoco lento - in un tegame di coccio anche detto, in dialetto, “casso”. E' anche vero che il riso è stato un ingrediente fondamentale per la cucina e l'economia veneziana: nella ricetta di "Risi e bisi" infatti si usa dire che "per ogni biso ghe voe un riso". Ho utilizzato quindi un mix di molluschi, le patate vitelotte perché hanno un colore che mi ricorda quello dei fondali marini e un po' di cumino e coriandolo pestati al mortaio, in onore ai traffici della Serenissima. 


Questo è il mix e la relativa traduzione: Cozze alias Peoci, Vongole Veraci alias Caparosoi, Cannolicchi alias Cape Longhe, Fasolari alias Issoloni, Cuore alias Cape Tonde.

“Xe pronto! Tuti in toea!"  (E’ pronto! Tutti a tavola!) 


Cassopipa (non è una parolaccia) ovvero la Taiddhra Chioggiota (e questa si che è una parolaccia ;)


Ingredienti (per 10 persone perchè la pentola di coccio che ho presto a Lecce è grandissima!)
2,5 kg tra cozze, fasolari, cannolicchi, cuori, vongole veraci, 500 gr di Vialone Nano, 600 gr di patate novelle, 500 gr di patate Vitelote, 170 gr cipolla di Tropea, 8 datterini di media dimensione, 100 gr di pecorino sardo di media stagionatura, olio evo, pepe nero del Madagascar macinato al momento, qualche spicchio d'aglio in camicia, 1 cucchiaino di cumino ed 1 di coriandolo in polvere, olio evo.

Procedimento 
Mettete i molluschi a spurgare in acqua salata (1 cucchiaio per ogni litro d'acqua) per almeno due ore, lasciandoli per divisi.
Nella pentola di coccio unire un filo di olio evo, uno spicchio d'aglio e far aprire separatamente i singoli mitili avendo cura di recuperare l'acqua di cottura, filtrandola attraverso un colino a maglia sottile, e facendoli aprire. Mettere da parte i molluschi cotti.

Sciacquare il riso, lavare le patate, sbucciare quelle novelle e tagliarle a fettine sottili. Pestare le spezie e tagliare in quarti i datterini. Tagliare sottilmente la cipolla.
Riprendere la pentola di coccio, disporre uno strato di patate (miste novelle e vitelotte), distribuire i molluschi mescolati fra loro, coprire con il riso, disporre il resto delle verdure, i pomodorini e spolverare con le spezie. Versare tutta l'acqua di cottura dei molluschi e coprire con il pecorino grattugiato e cucinare coperto nel forno statico già caldo a 160° per circa 1 ora e mezza. Accendere il grill e terminare la gratinatura (circa 15'). Far riposare dentro il forno e servire.